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È la prima volta che Abiy rende pubbliche informazioni sul comitato [Tiksa Negeri/Reuters]

Etiopia. I conflitti in Amhara ed Oromia e il dialogo nazionale

Anche se la brutale guerra di due anni del Tigray si è conclusa 20 mesi fa, il governo del PM Abiy Ahmed – premio Nobel per la pace – sta lottando per sedare le insurrezioni nelle regioni più grandi e popolose, Oromia e Amhara. Il paese ha però bisogno del ripristino della legalità e della giustizia sociale, di sicurezza all’interno dei propri confini e di un dialogo nazionale vero e determinato.

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Acled – Ethiopia Peace Observatory. Report 18-24 Maggio 2024

La federazione è un grande mosaico di oltre 80 comunità etnico-linguistiche di varie dimensioni, ognuna con le proprie istanze politiche, rivendicazioni identitarie, sociali o territoriali, alle prese – oggi più che mai – con una crisi profonda della propria architettura, con il riacutizzarsi di sconvolgimenti a livello regionale e la nascita di nuove questioni locali.

Nella regione Amhara proseguono i combattimenti tra le milizie Fano e l’esercito federale ENDF. La milizia, nota per essere capillarmente presente nei kebeles (la più piccola unità amministrativa in Etiopia, equiparabile ad un quartiere, frazione o piccolo villaggio) ha combattuto per almeno due anni a fianco dell’ENDF contro le forze tigrine (TDF). Il tentativo del governo di Addis Abeba di incorporare le milizie regionali all’interno delle forze regionali, ha però scatenato la reazione Amhara, che ha visto nell’operazione del governo l’ennesimo tentativo di limitare l’autonomia regionale.

Le zone di confine tra la regione Amhara ed il Tigray, occupate dalle milizie Fano sono oggi al centro di una grande disputa con l’amministrazione provvisoria del Tigray: le truppe tigrine, in alcune aree, hanno ripreso possesso dei territori contesi, in altre la situazione risulta essere più fluida, con capovolgimenti di fronte repentini. Scontri, più o meno cruenti o limitati, si sono avuti nel North Wollo, in prossimità delle città di Alamata, Woldiya, Korem; hanno interessato l’intera area portando migliaia di persone a fuggire a sud, verso Dessie.

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(Foto: Alamata Communications/Facebook)

Stessa sorte nelle zone del cosiddetto Tigray occidentale, con la zona in prossimità di Bahar Dar, in particolare quella a sud ovest tra Merawi e Debre Tabor (West Gojjam) interessata da forti combattimenti tra gli attori in campo e migliaia di rifugiati interni, soprattutto verso Bahar Dar ed Addis Abeba.

In Oromia si è riaccesa la lotta dell’Oromo Liberation Army (classificato come organizzazione terroristica dal governo federale) contro il governo centrale di Addis Abeba.

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Credit: Oromia Conflict Monitoring Center/ X

Lo scontro è ripreso nel 2018 (ben prima dello scoppio della guerra nel Tigray) ma ha visto nella guerra tra Addis Abeba e Mekelle l’occasione per aumentarne l’intensità, cercando prima una cooperazione militare con le Tigray Defence Forces (mai attuata in realtà o limitatissima negli effetti) per poi alzare il livello dello scontro con le truppe federali, attraverso una miriade di attacchi mordi e fuggi, che hanno interessato in modo particolare lo Shewa settentrionale e occidentale e l’Horo Guduru Welega.

Non sono mancati attacchi anche a zone molto vicine alla capitale, come quello avvenuto a Gennaio a Sululta, a qualche decina di chilometri a nord di Addis Abeba; segno dell’instabilità della situazione sul campo e della difficoltà delle forze federali di garantire la sicurezza oltre i confini della città.

A segnare lo scontro anche l’uccisione mirata di alcuni leader oromo, per ultimo ma non meno importante l’uccisione di Bate Urgessa politico appartenente all’Oromo Liberation Front, avvenuto a Meki il 10 Aprile.

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All’inizio di Maggio il governo etiope ha intrapreso una fase chiave di un processo di dialogo nazionale volto a guarire o risanare le mille ferite che ne stanno destabilizzando l’architettura stessa.

Mentre i sostenitori del dialogo sottolineano come sia l’unico modo per affrontare le mille sfide che l’Etiopia si trova ad affrontare, comprese le tensioni a livello regionale e l’implementazione degli accordi di Pretoria che ha messo fine alla guerra nel Tigray, i detrattori ed i critici evidenziano come questo processo sia morto prima di fare il primo passo.

È tempo di avere un dialogo genuino che non lasci fuori nessun attore, sia esso un gruppo sociale, un partito politico o gruppo armatoha affermato Mohamoud Dirir, uno degli 11 membri della Commissione nazionale per il dialogo etiope (ENDC).

Un totale di 16 partiti politici, tra cui il Prosperity Party, che ha il 90% dei seggi parlamentari, si sono uniti alle sessioni tenutesi ad Addis Abeba insieme a rappresentanti del governo, della società civile e a varie figure di spicco della società civile, secondo l’ENDC.

Da annotare che il Consiglio dei ministri ha approvato una proposta di legge che stabilirebbe un percorso per le organizzazioni precedentemente fuorilegge per registrarsi nuovamente come partiti politici legittimi. Previa approvazione della Camera dei rappresentanti del popolo, l’emendamento potrebbe aprire la strada alla ri-registrazione dei partiti vietati, come il Tigray People’s Liberation Front (TPLF).

Una parte di opposizione però non ha partecipato agli incontri, bollandoli come un processo morto sul nascere, per niente inclusivo e direttamente controllato dal governo. “Gli ingredienti critici per un dialogo nazionale di successo sono assenti“, ha affermato Merera Gudina, presidente del Caucus dei partiti di opposizione (CoP).

Abiy Ahmed, infatti, ha detto di essere pronto ad accettare le proposte emerse dal dialogo, ma ha respinto una grande richiesta dell’opposizione: un governo di transizione inclusivo. “Le elezioni saranno l’unico mezzo per portare un governo al potere“, ha detto Abiy ai delegati.

Ci si chiede come si possa parlare di pace in un momento in cui intere aree del paese ancora sperimentano guerra e violenza. È inconcepibile che le persone che sono nel bel mezzo di un conflitto possano avere una conversazione seria, libera e trasparente, o semplicemente focalizzata sul processo di dialogo nazionale.

La base di un processo di dialogo serio dovrebbe essere il ripristino della legalità e l’avvio di un percorso di giustizia sociale che coinvolga tutte le parti in conflitto, qualunque esse siano, anche di quelle che potrebbero avere il motivo di prendere le armi contro il governo; il ritorno degli sfollati alle proprie case, la scarcerazioni di chi è detenuto arbitrariamente, l’espulsione di quelle forze straniere che occupano ancora intere aree del territorio nazionale.

Un processo imperfetto, come alcuni sottolineano, può essere utile all’esercizio di relazioni internazionali che contano, o al reperimento di valuta estera di cui il paese ha tanto bisogno ( il governo è impegnato in negoziati con il Fondo monetario internazionale per garantire un programma di sostegno finanziario), ma non raggiungerà mai il suo obiettivo principale: la pace e la sicurezza interna.

L’Etiopia è alle prese con un enorme debito estero di circa 28 miliardi di dollari, un’inflazione che si attesta oltre il 23,3%, una valuta che è in declino da anni e una persistente crisi umanitaria nelle regioni del nord).

Oggi più che mai l’Etiopia ha bisogno di uno scatto d’orgoglio, che riesca a mettere al centro della sua agenda politica il benessere della popolazione, la sicurezza del suo territorio e il ripristino della giustizia in tutto il paese. Un processo che risulterà lungo, arduo e molto complesso, ma al quale non vi è alternativa se non il mantenimento del potere politico a scapito di tutto il resto.

 

 

 

 

 

 

 

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